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I prodotti che raccontano una storia

Stando ai dati della terza edizione del report realizzato da Boston Consulting Group (Bcg) e Vestiaire Collective – la piattaforma di e-commerce dell’usato di lusso – il mercato del second hand vale tra i 100 e i 120 miliardi di dollari per le categorie di abbigliamento, calzature e accessori, non solo di fascia alta, e registra tassi di crescita doppi o tripli rispetto al mercato primario. E sembra destinato a crescere del 20-30% nei prossimi tre anni. I capi e gli oggetti cosiddetti ‘pre-owned’ o ‘pre-loved’ sono sempre più ricercati dalle persone, soprattutto da quelle appartenenti alle giovani generazioni, grazie anche al successo delle app di ‘re-sell’– come Depop, Vinted ecc. – che rimettono in circolo le merci, danno loro una seconda chance e ne allungano il ciclo di vita.

Il prolungamento del ciclo di vita dei prodotti è uno dei principi alla base del concetto di economia circolare ed è sicuramente una buona notizia per l’ambiente, ma lo è anche per i brand che possono, in questo modo, portare avanti la conversazione non solo con i propri acquirenti ‘primari’, ma anche con quelli ‘secondari’. Questa nuova prospettiva implica senza dubbio un aumento della complessità della gestione della relazione tra il brand e le persone, ma rappresenta anche una grande opportunità sotto diversi punti di vista. Dapprima permette, infatti, di rafforzare questa relazione e dilatarla nel tempo e, allo stesso tempo, di allargarla a un’audience potenziale più vasta. Le storie, quindi, che i brand ‘vendono’ ai loro clienti saranno fruite da un pubblico più ampio e diversificato che, dal canto suo, ha la possibilità di apportare il suo personale contributo alla loro costruzione ed evoluzione.

Story-selling

I clienti che hanno acquistato un prodotto della collezione primavera/estate 2023 di Chloé, marchio del gruppo Richemont, scansionando l’etichetta con lo smartphone hanno potuto apprendere il percorso effettuato dal capo, dal campo in cui sono state raccolte le materie prime fino al prodotto finito. Sono, quindi, venuti a conoscenza di tutti gli attori della filiera che hanno contribuito a produrlo, in molti casi vere e proprie eccellenze manifatturiere del mondo del tessile appartenenti a diversi Paesi e specializzate in vari settori. Esplorando questa sorta di passaporto digitale, infatti, si apprende che il lino utilizzato per il prêt-à-porter proviene dalla Normandia ed è coltivato con processi agricoli a basso impatto prima di essere filato e tessuto in Francia. Viene spiegato, inoltre, che la coltivazione del lino emette meno gas a effetto serra, consuma meno pesticidi e richiede meno acqua rispetto ad altre fibre naturali convenzionali, motivo per cui è considerato un materiale a basso impatto ambientale.

Raccontare step by step la storia del prodotto non è l’unica innovazione apportata da questo tool, che prende il nome di Chloé Vertical. Da questo ID digitale, infatti, le persone possono accedere direttamente al customer service della maison e alla piattaforma dedicata alla riparazione, dove vengono fornite tutte le informazioni dettagliate sulla cura e la manutenzione che consentono di allungare la vita del singolo prodotto. Un modo attraverso cui il marchio vuole ribadire il suo impegno – ricordiamo che nel 2021 Chloé è stata la prima luxury fashion house a diventare una B Corp – nel rendere le persone maggiormente responsabili al momento dell’acquisto e indurle ad avere un atteggiamento più sostenibile in caso di danneggiamento.

Ma c’è dell’altro. Quando, infatti, le persone decidono di separarsi dall’accessorio o dall’abito, un certificato di proprietà, collegato sempre all’etichetta smart, ne facilita la rivendita sulla piattaforma Vestiaire Collective (disponibile in Europa e negli Stati Uniti). Attraverso quest’iniziativa – che il brand vuole estendere a tutti i suoi capi entro il 2025 – Chloé offre un servizio aggiuntivo ai suoi clienti meno abituati a utilizzare i canali di reselling, convertendoli, così, alla rivendita. Il tool, inoltre, permette all’azienda di raccogliere dati preziosi sul ciclo di vita dei prodotti e di poterne tracciare tutti i passaggi di proprietà.

Già nel 2022 un’iniziativa simile era stata introdotta dal marchio di moda scandinavo Samsøe Samsøe a dimostrazione di quanto il trend del ‘resale’ non sia appannaggio esclusivamente del lusso ma sia trasversale al settore del fashion (oltre che trasversale ad altri settori del consumo, come, per esempio, l’arredamento). Anche questo brand, infatti, ha dotato le etichette dei capi di un QR code che genera automaticamente un annuncio Facebook e Instagram completo di tutti i dettagli (tessuto, colore, taglia, prezzo originale, ecc.) e delle foto a cui l’utente deve aggiungere solo le condizioni di vendita. In pratica, grazie a un accordo con Meta, Samsøe Samsøe sostiene i costi della micro-campagna che viene targettizzata localmente, rispetto alla posizione geografica del capo, al fine di ridurre i costi e le emissioni della spedizione. Quella dei rifiuti è una problematica che il fast fashion ha contribuito a creare a causa della sua produzione di massa che è diventata quasi ‘usa e getta’ e a cui con questo genere di soluzioni – altri marchi come Zara, H&M e Shein hanno creato e-commerce dedicati alla vendita dei loro capi di seconda mano – sta tentando di ovviare.

Vediamo, quindi, come il prodotto o la merce, anche grazie all’uso intelligente delle nuove tecnologie, possa trasformarsi in un media attraverso cui riverberare lo storytelling di marca e innescare un dialogo costruttivo con la propria audience, promuovendo, allo stesso tempo, comportamenti più virtuosi. Le persone, dal canto loro, sono desiderose di fare la loro parte per contribuire alla risoluzione delle problematiche ambientali attraverso l’adozione di scelte di consumo più consapevoli e sono, di conseguenza, disponibili a essere coinvolte in esperienze di acquisto, anche esclusive, che coniughino lusso e consapevolezza. Di qui deriva un’altra gamma di possibilità che i brand possono cogliere per arricchire il set di esperienze da offrire ai propri clienti, declinando anche nel retail fisico il concetto di circolarità e i valori legati al prendersi cura dei prodotti, in particolar modo quelli pregiati e artigianali.

Re-commerce

Ne è un esempio il debutto avvenuto la scorsa primavera del primo ‘ReCraft store’ del brand del lusso spagnolo Loewe. Aperto a Osaka, in Giappone, il negozio offre a tutti i clienti del marchio un servizio di manutenzione e riparazione delle sue pregiate borse fatte a mano. A disposizione delle persone, infatti, c’è un artigiano specializzato che esegue lavori di cucitura, ri-colorazione, sostituzione di manici e occhielli ecc., oltre che di personalizzazione, dando loro la possibilità di prolungare la gioia a lungo accarezzata di possedere un oggetto di lusso senza necessariamente acquistarne di nuovi. Nel negozio, inoltre, sono in vendita edizioni speciali delle ‘signature bag’ di Loewe realizzate con il surplus della pelle utilizzata per le collezioni degli anni precedenti. A detta del brand questo progetto rappresenta uno dei primi passi di un cammino intrapreso sulla strada della rigenerazione e della durevolezza dei loro prodotti sul lungo periodo.

Anche in questo caso si tratta di una tendenza che investe l’intera industria della moda, marchi del fast-fashion compresi. Tra questi la catena giapponese Uniqlo che ha ideato i Re.Uniqlo Studio, spazi all’interno dei suoi negozi in giro per il mondo che fungono da laboratorio di riparazione nonché da hub del riciclo. Qui, infatti, le persone possono portare i loro capi per effettuare piccole riparazioni e aggiustamenti così come possono lasciare quelli che non utilizzano più e donarli alle comunità locali che aiutano i più bisognosi, oppure restituire quelli giunti alla fine del proprio ciclo di vita che il marchio riutilizzerà per la produzione delle nuove collezioni. Un modo, questo, che permette ai brand di aumentare le occasioni di visita ai negozi e di arricchire la shopping experience di nuovi significati legati a cause sociali e ambientali rilevanti agli occhi delle persone.

Che quella della riparazione sia un’abitudine a cui sempre più consumatori ricorrono è testimoniato anche dalla diffusione, nelle principali città del mondo, dei cosiddetti ‘Repair Café’. In questi luoghi si riuniscono volontari – esperti di informatica, artigiani, appassionati di bricolage ecc. – che mettono a disposizione le proprie conoscenze e competenze per aiutare le persone nella riparazione gratuita di ogni tipologia di oggetto, dallo smartphone agli elettrodomestici, passando per vestiti, mobili, giocattoli e biciclette. Segno della volontà delle persone di ridurre gli sprechi legati al consumo e di apprendere in prima persona come riparare le loro cose in futuro.

Un Prodotto Lungo Una Vita

Questa crescente sensibilità delle persone verso l’impatto del proprio stile di vita e di consumo si rispecchia anche nell’emergere di brand che pongono valori come la durevolezza e la riparabilità dei loro prodotti al centro della loro narrazione identitaria. I capi di LIVSN, marchio di abbigliamento outdoor americano, sono progettati per durare a lungo e per essere riparati facilmente. Il nome prende ispirazione dalla parola svedese ‘Livsnjutare’ che letteralmente significa: ‘Chi ama profondamente la vita’, ‘Chi si gode la vita’. Con questo motto il brand invita le persone a liberarsi delle cose ‘usa e getta’ per fare spazio, appunto, alla vita e al possesso di ciò che è veramente funzionale a quello che si ama fare.

Una delle sue ultime creazioni si chiama ‘Century Jacket’ proprio perché, come dice il nome, è stata realizzata per durare cento anni e accompagnare chi la acquista per tutta la sua vita. Il giubbotto è stato lanciato con una campagna di crowdfunding su Kickstarter, raggiungendo la somma prefissata ben prima della sua chiusura. Il marchio non è nuovo a questo genere di strategia di business attraverso cui testa in anticipo la risposta dei suoi consumatori che, come successo in precedenza, non si è fatta attendere: il progetto ha raccolto una cifra prossima ai 500mila dollari. Un’evidenza di quanto questa tipologia di narrazione faccia presa su una platea – oggi piccola ma in costante aumento – di persone sempre più disposte a instaurare con i prodotti – e con la marca – un legame di lunga durata.