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Berlino: fu vera Gloria!?

Gloria!, il film d’esordio di Margherita Vicario, anche senza premi tiene alta la bandiera italiana alla Berlinale, nell’edizione in cui l’Orso d’Oro è assegnato a Dahomey della franco-senegalese Mati Diop e l’Orso d’Oro alla carriera a Martin Scorsese. L’Italia brilla anche con le sue serie Dostoevskij e Supersex.

Fu vera Gloria!? Passateci il gioco di parole, ma vogliamo iniziare il racconto del Festival internazionale del cinema di Berlino con la nota più lieta per il cinema italiano: il film d’esordio di Margherita Vicario, intitolato appunto Gloria!. È ambientato a Venezia alla fine del Settecento in un collegio femminile, dove una ragazza, insieme a un gruppo di musiciste, crea una musica che scavalca i secoli. Margherita Vicario, che è attrice diplomata all’Accademia e cantautrice, ha unito le sue anime in un film musicale e in una storia di riscatto al femminile, uno dei temi del cinema di oggi. Il punto, infatti, è che a quei tempi le donne potevano studiare musica, ma non eseguirla in pubblico. Si tratta di una storia di fantasia calata in un contesto storico preciso, raccontata con una grande vitalità e una grande libertà, con una musica che si avvicina quasi al jazz. Il film non è stato premiato, ma porta una ventata di freschezza e di ottimismo al nostro cinema.

L’Orso d’Oro va a Dahomey di Mati Diop
Fu vera gloria? Per continuare il gioco, è una cosa che possiamo chiederci anche a proposito dei premi, che nella capitale tedesca sono sempre scelti in modo particolare, anche politico. L’Orso d’Oro di Berlino è stato vinto da Dahomey, della regista franco-senegalese Mati Diop. È un documentario che racconta la storia della restituzione di alcune opere primitive dalla Francia al Benin. Si tratta di una scelta molto particolare, ma premia un film che riesce a unire il documentario vero e proprio (la cronaca del viaggio di queste opere) con qualcosa di più profondo, sul senso storico e culturale di quelle opere, che ci viene spiegato da una discussione tra studenti.

Il Gran Premio della Giuria è andato invece a A Traveler’s Needs di Hong Sang-soo, con Isabelle Huppert che interpreta un’insegnante di francese per un gruppo di coreani, ruolo che svolge con umanità ed emotività entrando nelle loro vite. Il Premio della Giuria è andato a L’Empire di Bruno Dumont, un racconto straniante che riprende il mondo di Star Wars ambientandolo in Normandia, nelle campagne, con i contadini accostati ai cavalieri Jedi. La miglior regia è di Nelson Carlos De Los Santos Arias, per Pepe, un film che racconta la presenza degli ippopotami in Colombia; la miglior sceneggiatura è del tedesco Matthias Glasner per Sterben e il miglior contributo artistico è quello di Martin Gschlacht, direttore della fotografia dell’horror tedesco Des Teufels Bad. Il miglior interprete protagonista (Berlino non fa più differenze di genere per i premi d’interpretazione) è l’americano Sebastian Stan per A Different Man di Aaron Schimberg, un altro horror.

Emily Watson miglior non protagonista per Small Things Like These
Il premio per il miglior interprete non protagonista a Emily Watson è l’occasione di parlare di un film che ha lasciato il segno: Small Things Like These, di Tim Mielants, una coproduzione tra Irlanda e Belgio, in cui recita Cillian Murphy, il protagonista di Oppenheimer di Christopher Nolan. Il film racconta lo scandalo delle Magdalene Laundries: siamo nel 1985, in un paesino che si chiama New Ross. Un venditore di carbone (Murphy) si accorge delle condizioni in cui versano le ragazze orfane e le madri nubili nella casa Maddalena, una delle tante gestite dalla Chiesa cattolica dalla metà del Settecento: una sorta di prigioni dove le ‘recluse’ erano maltrattate e costrette a lavorare gratis, soprattutto nelle lavanderie. Su questo tema era stato girato anche Magdalene di Peter Mullan. Il film non mostra quello che accade all’interno, ma gioca soprattutto sull’incredulità dell’uomo, sulla sua presa di coscienza e sulla determinazione a far uscire all’aperto la questione.

My Favourite Cake racconta l’Iran di oggi
A proposito delle scelte un po’ ‘peculiari’ che si fanno a Berlino è stato dimenticato dai premi ufficiali uno dei film più amati del Festival, My Favourite Cake di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, premiato comunque dalla giuria ecumenica e dalla Fipresci, formata dai critici di tutto il mondo. Come oramai tristemente accade a ogni festival, ancora una volta il governo iraniano ha negato il visto ai due autori per accompagnare il film. Che non è politico, ma parla della realtà del Paese attraverso una storia che sembra raccontare d’altro: quella di una donna di settant’anni che non vuole vivere da sola e cerca un compagno, invitando a cena un tassista single come lei. Dietro a questa vicenda c’è un incontro con la Polizia morale che vuole arrestare una ragazza e una vicina che non si fa ‘i fatti suoi’. Anche se filtrato dall’ironia, tutto concorre a raccontare un clima di costante tensione presente in un Paese dove è stata uccisa ogni speranza per il futuro.

L’Italia è anche Another End di Piero Messina
Tornando a concentrarci sul cinema italiano, in concorso c’è stato anche Another End, di Piero Messina, un film che si muove tra melò e fantascienza, smontando però gli stereotipi del genere. È la storia di un uomo (Gael Garcia Bernal) che ha perso l’amore della sua vita: la sorella (Bérénice Bejo) lavora in una società, l’Another End, che ha inventato una tecnologia che permette di introdurre la memoria e la coscienza del defunto nel corpo di un’altra persona, un donatore. E così quell’amore perduto entra nel corpo di un’altra donna (Renate Reinsve). Una storia alla Black Mirror, ma girata da Piero Messina con una regia rarefatta e giocata sui silenzi e il senso di angoscia.

Dostoevskij e Supersex: le serie italiane a Berlino
Ormai gli steccati tra cinema e serie sono caduti, e anche una serie, se di qualità, può andare a un festival. L’Italia ne ha portate due. La prima è Dostoevskij, la nuova opera dei fratelli D’Innocenzo, che proprio a Berlino avevano rivelato il loro talento. Potrebbe essere anche considerata un lungometraggio di sei ore: uscirà infatti al cinema e poi su Sky. È stata definita un “noir esistenzialista e sporco” e racconta la storia di Enzo Vitello (Filippo Timi), un poliziotto alle prese con i fantasmi del suo passato e con Dostoevskij, un assassino che accanto alle vittime lascia delle lettere. I D’Innocenzo hanno dichiarato di voler raccontare ‘l’immondizia del mondo’ e il ‘caos della vita’ e di non voler fare serie alla moda. Vengono dalla povertà e dicono di voler parlare degli ultimi della società perché è ancora di quel mondo che sentono di fare parte.

La seconda è Supersex, serie Netflix in sette puntate (diretta da Matteo Rovere, Francesco Carrozzini e Francesca Mazzoleni) ispirata alla vita di Rocco Siffredi, l’attore porno più noto in assoluto, interpretato da un convincente Alessandro Borghi. La serie prova a entrare nella sua vita, raccontando di lui sin da bambino, la sua crescita a Ortona, Abruzzo, tra il fratellastro (Adriano Giannini) e quel fumetto pornografico (Supersex) che diventa il suo punto di riferimento. E poi parla di lui da adulto, tra scene di nudo molto forti, dell’incontro con Moana Pozzi (Gaia Messerklinger) e di un mondo, quello del porno avventuroso e artigianale degli anni ’90, che oggi non c’è più, poiché con l’avvento di internet si è industrializzato. Questa serie, aneddoto molto curioso, è stata scritta da una donna femminista come Francesca Manieri. E anche in questo sta la forza dell’operazione.

Martin Scorsese, l’Orso d’Oro alla carriera e il film su Gesù
È stato anche il Festival dell’Orso d’Oro alla carriera di Martin Scorsese, in corsa agli Oscar con il suo Killers Of The Flower Moon. “Sto contemplando la possibilità di fare un film su Gesù, vorrei realizzare qualcosa che sia unico, differente, provocatorio ma di intrattenimento”, ha dichiarato, parlando anche del cinema di oggi. “Mi piace il cinema giapponese e nominerei il film di WimWenders, Perfect Days, e Past Lives di Celine Song”. Al Maestro c’è chi chiede se farebbe un film co-diretto con Steven Spielberg. “Ci abbiamo provato per anni a produrre un film insieme, ma ci siamo andati vicini soltanto con Maestro”, è stata la risposta. “Credo comunque che sarebbe una bella esperienza”.