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Paola Cortellesi, protagonista della storia di copertina del nuovo numero di Vanity Fair

In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, Vanity Fair dedica la copertina a Paola Cortellesi nei cinema con il suo primo film da regista, C’è ancora domani. Il film, record di incassi (è il più visto in Italia dall’epoca della pandemia e, in queste settimane, ha doppiato persino Killers of the flower moon di Martin Scorsese) ha riempito i cinema parlando di violenza domestica, patriarcato, diritti civili. Da «caso cinematografico» è quindi diventato un «caso politico», in un Paese al 79esimo posto del Global Gender Gap Report 2023, la regista afferma: «I femminicidi che ci sono, in Italia, ogni 72 ore, sono un’emergenza. Per la prima volta il nostro Paese ha a capo del governo e dell’opposizione due donne, una concomitanza che dovrebbe portare a tendersi la mano. Sarebbe una vera rivoluzione: unire le forze per un progetto comune sulla prevenzione dei femminicidi. La maggior parte di noi ha sentito nella sua vita un insulto, un “non vali niente”, “sta zitta”: l’educazione all’affettività e al rispetto di sé andrebbe iniziata alla scuola dell’infanzia, per proseguire più avanti con l’educazione sessuale, il tema del corpo… È uno scandalo che non sia previsto dal ministero».

Alle due donne più potenti al governo, che vorrebbe presto incontrare con la Fondazione Una Nessuna Centomila (organizzazione no profit per il contrasto della violenza sulle donne di cui è fondatrice del Laboratorio Artistico), Paola Cortellesi chiede «di non dar conto a chi le ha appoggiate e al gruppo politico di cui fanno parte. Autonoma totalmente in politica non puoi esserlo perché arrivi sempre insieme a un gruppo, però mi piacerebbe tanto che la loro appartenenza al genere femminile le facesse andare oltre. Sono sicura che esista un punto di incontro: e bisogna agire subito».

All’interno nel numero di Vanity Fair, in edicola dal 14 novembre, interviste, punti di vista, indagini e storie sulle violenze e le disparità di genere raccontate grazie alla collaborazione delle associazioni che, da anni, si battono in prima linea per contrastare questi fenomeni.

Tra le pagine, un articolo dedicato al racconto di una giornata passata nella sede romana di Differenza Donna, che ospita il centralino del 1522, il numero gratuito e attivo 24 ore su 24 da chiamare – anche in forma anonima – per chi subisce violenza o stalking o vuole aiutare qualcun’altra. Come spiega la responsabile del servizio Arianna Gentili «spesso capita di parlare con ragazze che sono alla prima storia d’amore importante e si rendono conto di vivere una relazione malata. Chiedono se è normale quello che subiscono. Vogliono sapere se succede anche ad altre donne. Le parole che utilizziamo quando rispondiamo sono fondamentali. Fanno la differenza su ciò che la vittima sceglierà di dire oppure no un istante dopo».

La stessa sensibilità è quella che devono mettere in campo gli esponenti delle forze dell’ordine deputati a ricevere le denunce delle donne. Lo spiega Marina Contino, Primo Dirigente del Servizio Centrale Anticrimine della Polizia: «L’accoglienza della vittima nasce dal corpo di guardia. Se arriva una donna e la facciamo aspettare anche cinque minuti è come se le stessimo dando un altro schiaffo. Se la lasciamo in attesa al telefono come qualunque altra vittima di reato, le stiamo dando un altro pugno. Quindi l’accoglienza per noi parte da qui: farla sentire sicura e libera di parlare». Per combattere la violenza di genere, che Contino paragona alla mafia (entrambi i fenomeni condividono i medesimi «contesti di omertà e negazione»), occorrono prevenzione ed educazione. Un connubio che ha trovato forma nel progetto Cerchi Anti Violenza, nato grazie alla volontà del network di donne The Circle in sinergia con la Polizia di Stato, che prenderà corpo attraverso workshop per addetti ai lavori e incontri nelle scuole.

Una simile attività di educazione e creazione di consapevolezza è al centro della mission di Edela, associazione in sostegno degli orfani di femminicidio. Uno dei suoi testimonial è Marco Sancandi, che a Vanity Fair ha raccontato la sua storia di dolore, iniziata quando il padre ha ucciso la madre e poi si è tolto la vita: «Anche se provi ad andare avanti, certe ferite rimangono: quando è nato mio figlio Lorenzo avevo il terrore che mi chiamasse papà, perché quella parola mi ricordava la tragedia».

Il potere della parola è ricordato anche dal direttore di Vanity Fair Simone Marchetti nel suo editoriale: «La violenza di genere, il patriarcato, sono così antichi e radicati nella nostra cultura da nascondersi dietro le parole fino a non farsi vedere più, anzi, fino a sembrare libertà di pensiero. Ecco, la violenza di genere non è libertà di pensiero. E se proprio volete iniziare a cambiare qualcosa, provate a partire dalle parole che scegliete. Il domani inizia anche dalle vostre parole. Il domani è adesso». Sempre nell’editoriale, Marchetti racconta che: «Il giornale si apre con un pugno nello stomaco: tre pagine dedicate al ricordo delle vittime di femminicidio uccise da uomini dall’inizio del 2023».

Quest’elenco, che ha il sapore di un’Antologia di Spoon River, verrà poi aggiornato sul sito vanityfair.it dove ci saranno altri approfondimenti sul tema, tra cui: un articolo sulla vittimizzazione secondaria, un’anteprima dell’app di donne per strada con cui contattare qualcuno in caso di aggressione, un’inchiesta sul tema degli abusi nello sport. Sui canali social di Vanity Fair, infine, saranno pubblicate pillole video in cui gli studenti dell’università statale di Milano che frequentano un corso di educazione sentimentale raccontano le parole da cui ripartire per ottenere la parità.

QUOTES PAOLA CORTELLESI
Nel suo film il messaggio è che la realizzazione di una donna passa attraverso l’istruzione, non attraverso il matrimonio. Il governo Meloni invece premia la donna che mette su famiglia, e se fa due o più figli ha già dato «il suo contributo» allo Stato. Che cosa ne pensa?

«Che non si possa giudicare il contributo di una donna alla società in base a quanto partorisce. I figli si fanno per altri motivi, per amore ad esempio. Il matrimonio non è più l’unico traguardo da tempo, lo sono invece una buona istruzione e un buon lavoro. Su questi diritti dobbiamo puntare. Alcuni insegnanti che ho incontrato mi hanno detto che non riescono, con i libri, a fare appassionare i ragazzi alla storia dei diritti delle donne, e vorrebbero “sfruttare” il mio film».

Peccato che la scuola italiana non preveda un percorso di educazione all’affettività. Di recente una proposta per introdurre l’educazione sessuale è stata derisa in Parlamento…

«Un deputato della Lega ha definito “una nefandezza” l’idea, diceva, di “insegnare il sesso ai nostri figli di sei anni”. Quando ho sentito la notizia ho pensato proprio il contrario, l’educazione all’affettività e al rispetto di sé andrebbe iniziata alla scuola dell’infanzia, per proseguire più avanti con l’educazione sessuale, il tema del corpo… È uno scandalo che non sia previsto dal ministero».

Specialisti che, da anni, dicono che la prima educazione sessuale dei ragazzi sono i video porno sul cellulare.

«Sia chiaro: non ho nulla contro i desideri sessuali e le fantasie tra adulti, ma i ragazzini di oggi sono esposti a una quantità di informazioni esagerata, e quella non è l’età giusta per quei contenuti, ti cambiano i parametri, poi non capisci più niente e succedono anche cose molto gravi, basti leggere la cronaca del “branco” che stupra».

I maschi degli anni ’40, nel film, dai più anziani ai più giovani, sottomettono e sminuiscono le donne. Pensa che oggi le nuove generazioni siano più equilibrate?

«Dipende da dove provengono. Io ho disegnato un cerchio: Ivano, operaio, è figlio di un padre tossico. Il “ragazzo di buona famiglia” Giulio è figlio di un padre che magari non è come Ivano, ma da lui ha imparato che, una volta che la donna diventa sposa, è di sua proprietà. Volevo raccontare la questione del possesso, che non è legata solo alla cultura dell’epoca».

Non è cambiato molto, allora: oggi abbiamo indagati per violenza sessuale il figlio del presidente del Senato come i ragazzi di Palermo.

«Infatti quando dico che “dipende da dove vengono” non mi riferisco al ceto sociale, ma all’etica. Nel film non tutti i maschi sono maschilisti: c’è il soldato americano, o il marito dell’amica di Delia, che ci ricordano che ci sono stati anche uomini rispettosi e giocosi con le loro compagne. E ci sono anche adesso. Ma resiste, parallelamente, la mentalità sessista».

Il suo film è uscito pochi giorni dopo che Giorgia Meloni ha lasciato il compagno Andrea Giambruno, dopo i fuorionda di Striscia la notizia.

«Sì, certo. Lì è stato veloce, non c’era un tema economico. Ma le altre? Nelle case rifugio arrivano donne in situazioni limite, quando non possono più farne a meno, per rimettere in piedi un’esistenza diversa per sé stesse e per i loro figli».

L’intervista completa è disponibile sul numero di Vanity Fair in edicola dal 15 novembre e online sul sito di https://www.vanityfair.it/